Nel novembre scorso con altre dieci famiglie con figli autistici, come mio figlio Matteo, avevamo deciso di trascorrere insieme il Capodanno per regalarci un'occasione per stare tutti assieme. Qualche giorno per offrire ai nostri figli un'esperienza nuova, in linea con tutti gli sforzi quotidiani che facciamo per favorire la loro integrazione e inclusione sociale. [Marco Sabatini Scalmati]
Ci imbattiamo così, cercando su internet, in un centro termale in provincia di Frosinone. La struttura, peraltro accreditata dal Servizio Sanitario Nazionale, ci piace e li contattiamo.
Nella prima telefonata, una voce femminile ci conferma la disponibilità per il nostro gruppo che, dicemmo subito, sarebbe stato composto anche da alcuni ragazzi autistici. Una precisazione che in queste occasioni facciamo sempre per educazione e perché pensiamo che chi ci ospita, seppure a pagamento, non debba avere la sorpresa di vedersi arrivare ragazzi che ad un ciao magari non rispondono oppure hanno comportamenti bizzarri.
Sembra tutto a posto. Ma quando nei giorni successivi una delle mamme richiama per confermare le camere ecco la sorpresa. La parola "autismo" aveva evidentemente spaventato la direzione della struttura e l'atteggiamento cambia. Non si contano le difficoltà che ci vengono sollevate per farci desistere: ospitiamo bambini a numero chiuso (ah? Non c'era scritto da nessuna parte...); non siamo organizzati per ospitarvi (cioè?); non abbiamo una struttura idonea per eventuali emergenze (e allora come fate ad essere aperti?). Fino ad arrivare a dirci di metterci nei loro panni, di chi ha il dovere di garantire tranquillità e relax per i loro clienti.
Noi, invece, abbiamo continuato a vestire i nostri panni. Quelli di genitori abituati alle difficoltà di chi ogni mattina indossa il migliore umore possibile per affrontare una quotidianità che non regala niente, e dove tutto va conquistato con continui sacrifici.
Nei nostri panni abbiamo dunque deciso di denunciare questa discriminazione dettata solo dall'ignoranza. Perché non chiedevamo nulla. Non chiedevamo personale, perché i ragazzi sarebbero stati con le loro famiglie, non chiedevamo spazi per noi, perché i nostri figli sono seguiti da anni e assicuravamo che non avrebbero creato nessun problema.
L'epilogo di questa storia è che ogni famiglia ha passato la fine dell'anno per conto proprio e le scuse sono arrivate in modo faticoso e in ritardo: solo dopo un mese e mezzo, il 2 gennaio, a capodanno passato e soltanto - ne restiamo convinti – per una campagna mediatica martellante, che abbiamo cercato e alimentato. Scuse dunque forzate e arrivate con un invito finale a ospitare solo il nostro gruppo in un altro fine settimana, che sa tanto di ghettizzazione, che ovviamente abbiamo rifiutato.
Alla fine, mi domando, cosa resta di questa vicenda. Resta una sensazione bellissima, difficile da spiegare. Resta un gruppo di famiglie oggi ancora più unito, che ha fatto quello che era giusto fare per restituire dignità a noi stessi e ai nostri figli.
Resta la consapevolezza che in questo Paese c'è ancora tantissimo da fare per contrastare la discriminazione sociale, confermata dall'iniziale, incredibile, ostinazione di questo Centro a rivendicare fino alla fine la loro scelta di non volerci. Per arrivare a ricevere almeno le loro scuse abbiamo dovuto insistere per giorni e giorni. Abbiamo dovuto contrastare meschine insinuazioni e respingere qualche malcelata lusinga e, soprattutto, abbiamo dovuto metterci la faccia, raccontare il nostro vissuto e il nostro quotidiano. Lo abbiamo fatto ma avremmo preferito non ce ne fosse bisogno. Ma purtroppo era necessario davanti all'ignoranza arrogante di chi pensa di poter avere sempre ragione.
Di questa vicenda restiamo dunque noi, genitori e figli pronti, se ce ne fosse bisogno, a lottare di nuovo, e sempre, per far accettare la nostra diversità ad essere normali. Una battaglia che domani, se necessario, sarà ancora più bella, perché ci troverà ancora più forti.
Marco Sabatini Scalmati